La realtà è deformata, nel senso che è più vivida di quanto non lo sia per la maggior parte delle persone che, per semplificazione, potrebbero essere definite normali. Dall'interno di un'asfissiante depressione, che i personaggi cercano di debellare, ogni singolo dettaglio assume una propria abnorme esistenza. Anzi ogni particolare rivela quello che "normalmente" si cela agli occhi di chi non sta facendo il percorso del dolore, come la protagonista, specchio amplificato dell'autore.
Tutto è un'altra cosa, mentre si sta accettando l'idea che la malvagità è parte della natura umana, che la natura stessa in senso lato è malvagia. E l'uomo, anzi la donna come archetipo della specie portatrice del male, è il tramite per cui il male si manifesta ed agisce. E in questo delirio il processo di identificazione con la natura e finalmente con il male, vera origine, generatore madre, spinge alla distruzione del sé: con la mutilazione come antidoto al bisogno di provare piacere, con la tortura per distruggersi nell'immagine speculare nell'altro, e con l'annullamento della dignità delle convenienze attraverso il sesso trasformato in castigo e autoflagellazione.
Io vedo il regista fare parallelamente un percorso di allontanamento definitivo da un pubblico che sembra un'ostacolo da abbattere piuttosto che una platea da soddisfare o eventualmente un complice con cui compartecipare. Arrivando fino all'autodenigrazione: quando la bestia, l'animale che mangia sé stesso segnando il superamento dell'equilibrio naturale, del codice comportamentale, di tutte le possibili convenzioni, quando la bestia parla, mettendo per un momento il film nella categoria del ridicolo dell'involontariamente grottesco. Sembra appunto che si schernisca da sé il regista, e che voglia farsi odiare, così come accade in fatti a coloro che sono nella tormenta della propria autostima. Il caos che ne deriva impedisce di mettere quest'opera in una categoria, di apparentarsi con un genere sia esso horror, dramma, o triller.
Ma proprio tutto il caos che viene evocato, provocato, liberato, si manifesta con un ordine quasi dottrinale dell'immagine: con una cura esasperata dell'immagine ogni cosa è sé stessa alla potenza ed è anche qualcos'altro se osservato con lentezza, col filtro del dolore, con lo spirito sanguinante che conferisce solo all'estetica il potere di mediare anche quando obbliga a distogliere lo sguardo.
Io non riesco a pensare a questo film se non con fastidio, forse con odio per quelle immagini che sono troppo vere per essere sopportate, per quell'eccesso di onestà in qualche modo insostenibile, e non posso dimenticare l'intensità dell'esperienza: non posso proprio fare a meno di interrogarmi sul perchè possa essermi "piaciuta" tale esperienza, perché quanto più ammetto di essere ammaliato, stregato, da quelle vibrazioni, tanto più mi interrogo, con timore, su me stesso. Forse é per questo che posso dire che nonostante non sia questo il cinema che vorrei, perchè supera il limite dell'opera d'arte per invadere le categorie della psiche nelle fragilità dello spettatore, cosa che non deve (o non si vorrebbe) competere al cinema, è questo il cinema che obbliga a vedere i limiti e le convenzioni che non posso o non voglio infrangere. E' cinema che esce dal suo posto sullo schermo per lasciare un segno, ambiguo, in un qualche anfratto della coscienza.
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